di Elena Bilotta
Intraprendere un percorso di accettazione degli eventi e delle emozioni spiacevoli aiuta a diminuire la sofferenza percepita e rende disponibili al cambiamento
Non è mai cosa facile riuscire a non opporsi a sensazioni negative e decidere di impegnare le proprie forze, cognitive e non, in altre attività considerate importanti. Accettare qualcosa di profondamente spiacevole come una perdita, un rifiuto, un abbandono, un’emozione o un pensiero invalidante e ricorrente, è un atto a volte eroico, che invita a spostare l’attenzione da elementi della propria esperienza sui quali non si ha alcuna possibilità di controllo a nuovi obiettivi validi e raggiungibili.
La ricerca dimostra che chi accetta un evento negativo tendenzialmente si adatta meglio alla realtà che lo circonda e tende meno a catastrofizzare e a entrare in stati di rimuginio ansioso o ruminazione depressiva. Accettare, in sostanza, protegge dal perpetrarsi della sofferenza.
Nell’immaginario collettivo, tuttavia, accade che l’accettazione sia spesso confusa con la rassegnazione, venendo così automaticamente giudicata come un segno di debolezza, cedimento o assenza di assertività. Viene, cioè, intesa come passività, assenza della possibilità di scelta, e questo giudizio non aiuta la persona a predisporsi con curiosità, interesse e disponibilità nei confronti di questo complesso processo.
In realtà, l’accettazione è tutt’altro che passiva: richiede un forte impegno per essere messa in atto e una certa costanza per essere mantenuta nel tempo. Possono essere diversi, infatti, i momenti nei quali la rabbia, l’avversione, la tristezza, l’angoscia associate all’evento da accettare si riaccendono, facendo così vacillare l’intenzione ad accettare. Quelli sono i momenti in cui a traballare è soprattutto la fiducia nel fatto che accettare abbia un senso a lungo termine. Nonostante sia così difficile da implementare e da mantenere, l’accettazione non è, infatti, in grado di cancellare completamente la propria sofferenza né di proteggere da sofferenze future. Il primo passo per poter accettare, però, è proprio rafforzare la consapevolezza che non esiste alcuna strategia che sia efficace per cancellare il dolore o che protegga dalla sofferenza, alla quale si è inevitabilmente esposti nel corso della vita.
Diversi approcci terapeutici si propongono un intervento che tenga conto dell’accettazione come momento prezioso di cambiamento all’interno del processo terapeutico. Nell’Acceptance and Commitment Therapy (ACT), accettare significa aprirsi e fare spazio a sentimenti, sensazioni, impulsi ed emozioni dolorosi. Ci si propone di abbandonare la lotta con i contenuti dolorosi della propria mente, si invita a smettere di combatterli, resistervi o di rimanerne invischiati o sopraffatti, e semplicemente lasciarli essere quello che sono. Ciò viene fatto in terapia principalmente attraverso l’uso di metafore e di pratiche di Mindfulness.
Accettare ciò che non si può cambiare è un processo importante anche all’interno della Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI). L’accettazione radicale è una abilità di padroneggiamento (o Mastery) degli stati mentali problematici da implementare quando non è possibile cambiare una realtà, passata o presente, che causa sofferenza. L’invito è quello di partire dal monitoraggio dei propri contenuti mentali e di unire pratiche di osservazione non giudicante per migliorare le capacità di gestione dello stato mentale problematico, ricordando sempre che l’ostinazione e il rifiuto spingono al perseguimento di scopi irraggiungibili e impediscono l’investimento delle proprie energie in scopi raggiungibili.
Nella pratica clinica, l’accettazione è sempre associata a un senso di sollievo, diminuzione della sofferenza e aumento dell’autoefficacia percepita. Questo è un altro dato a conferma del fatto che accettare è ben diverso dal rassegnarsi. Rassegnarsi è come arrendersi di fronte alla propria impotenza. Accettare è accogliere l’incontrollabilità di eventi e sensazioni, rendendosi disponibili a riprendere il proprio cammino di vita, così com’è.
Foto di Giuseppe Fiumara @geronimo.stilton.1272
Per approfondimenti:
Carcione A., Nicolò G., e Semerari A. (2016). Curare i casi complessi. La terapia metacognitiva interpersonale dei disturbi di personalità. Bari: Editori Laterza.
Harris, R. (2011). Fare ACT. Una guida pratica per professionisti all’Acceptance and Commitment Therapy. Milano: Franco Angeli.
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