di Elena Bilotta
Appunti dal Corso “Teoria e clinica del perdono interpersonale” tenuto da Barbara Barcaccia presso l’APC di Roma
Da un punto di vista etico, esistono numerose offese considerate imperdonabili. Da un punto di vista psicologico, invece, il perdono è un atto sempre possibile. Questa la prima dicotomia che può fungere da ostacolo al processo del perdono. Ma l’aspetto morale non è l’unico impedimento. È facile, infatti, associare il perdono alla religione, identificandolo come atto di misericordia possibile solo a chi abbia una fede che lo aiuti e sostenga. In realtà, come ha scritto Hanna Arendt, anche se dobbiamo la scoperta del ruolo del perdono a Gesù di Nazareth, “non è una ragione per prenderla meno sul serio in un senso strettamente profano”.
La ricerca psicosociale sul perdono interpersonale ne testimonia, infatti, i suoi numerosi benefici osservati indipendentemente dal credo religioso. Tra i principali, vi è un maggiore benessere psicofisico nella vittima, indipendentemente dalla gravità dell’offesa ricevuta. Chi perdona è meno soggetto a sperimentare odio, ostilità, tristezza e ansia ed è meno assorbito in processi di ruminazione rabbiosa. Ha minori livelli di stress, senso di solitudine e depressione, ed è in generale più soddisfatto di sé e della propria qualità di vita.
Perdonare è tuttavia un processo difficile e doloroso, che non viene attuato semplicemente per una impossibilità di vendicarsi o per il timore di una ritorsione da parte del colpevole. Il perdono non è sinonimo di impotenza, ma è una scelta.
Per poter scegliere attivamente di perdonare chi ci ha fatto del male può essere utile fare chiarezza sul significato del perdono e sulle sue principali implicazioni:
Perdonare non è cancellare il torto. Se così fosse, avrebbe un potere magico. Il perdono può, però, ridurre notevolmente le conseguenze del torto, legate alla sofferenza psicologica.
Perdonare non vuol dire dimenticare. Un atto di oblio volontario è impossibile, specialmente quando le offese subìte sono state gravi. Per poter perdonare un torto bisogna ricordare di averlo subìto, ma lo si fa attraverso un processo diverso dalla ruminazione.
Perdonare non è sinonimo di riconciliazione. Pur essendo potenzialmente un passo verso la riconciliazione, non la implica necessariamente. Anzi, spesso la riconciliazione va evitata, specialmente se il colpevole è una persona potenzialmente pericolosa. Il perdono può essere un processo unilaterale, non è cioè necessario dichiarare al colpevole l’intenzione di perdonare, e si può perdonare anche chi non c’è più.
Perdonare non è giustificare. Non vuol dire sminuire l’entità dell’offesa subita, né deresponsabilizzare il colpevole, né negare o scusare il colpevole per ciò che è accaduto.
Perdonare non è un atto di sottomissione o debolezza. Al contrario, è un processo lungo e tumultuoso che necessita di forte motivazione al cambiamento e tolleranza alle frustrazioni.
Perdonare, insomma, è un processo molto più attivo e laico di quanto si potrebbe pensare. Non presuppone solo l’interruzione e l’abbandono di ruminazioni rabbiose e desiderio di vendetta, ma implica anche una crescita, perché contiene una dimensione costruttiva. Il perdono aiuta a modificare nel tempo le emozioni, i pensieri e le attitudini nei confronti di una persona che ci ha fatto del male. E questo va sempre a vantaggio della vittima, e mai del colpevole.
Per approfondimenti:
Barbara Barcaccia (2017). Il perdono interpersonale: analisi del costrutto. Efficacia, rischi e benefici per il benessere psicologico della terapia del perdono. Rassegna di Psicologia, XXXIV, 3, 55-66.
Barbara Barcaccia e Francesco Mancini (2013). Teoria e clinica del perdono. Raffaello Cortina Editore.