di Elena Bilotta
Una pratica di Mindfulness per imparare a modificare alcuni contenuti invalidanti della propria mente
“Non sono capace“, “Non valgo niente” , “Non sono intelligente“, “Non sono interessante“, “Sono un disastro“… Si potrebbe andare avanti per ore a elencare i giudizi che la nostra mente è in grado di formulare quando si sta attraversando un momento di difficoltà o si sta facendo esperienza di un’emozione difficile. Il giudizio che si attiva quando si prova una sensazione spiacevole che per qualche motivo è considerata sbagliata o fuori luogo, in clinica viene definito “problema secondario”. Il problema secondario non è chiamato così perché meno importante di quello “primario” (cioè l’emozione derivante da un evento scatenante), ma perché nasce proprio da esso, ne è cioè la valutazione diretta. Spesso, inoltre, rappresenta un importante fattore di mantenimento della problematica psicologica.
Facciamo un esempio: Luigi è un impiegato apprezzato dai colleghi per le sue doti e capacità. Un giorno, durante una riunione, gli viene chiesto di presentare alcuni dati relativi al lavoro di cui si sta occupando: Luigi prova immediatamente una forte ansia e agitazione corporea, diventa rosso e un insieme di pensieri catastrofici si affastellano nella sua mente, del tipo: “Andrà male”, “Non sono in grado”. Insieme all’ansia, Luigi prova anche vergogna e ha pensieri come: “Farò una figuraccia”, “Tutti si accorgeranno che sono arrossito”. Nonostante le difficoltà, le emozioni e i pensieri intensi, Luigi riesce a presentare in modo chiaro i dati del suo lavoro. L’ansia e la vergogna si abbassano dopo la performance, ma a questo punto Luigi inizia a valutare ciò che è successo, dicendosi: “Non avrei dovuto provare ansia, in fondo le cose le sapevo”, “Sono un debole, continuo ad agitarmi e a vergognarmi per queste cose”; o ancora: “Sono proprio un incapace, non ho speranze”. Questa valutazione giudicante e autoinvalidante sull’evento appena trascorso amplifica l’effetto negativo del vissuto primario, aggiungendovi il peso della tristezza da fallimento e dell’impotenza di fronte alle emozioni. Giudizi che rappresentano un importante ostacolo all’accettazione e alla regolazione emotiva primaria, e con ogni probabilità rimarranno l’unica “verità” che Luigi si porterà dietro fino alla prossima esposizione.
Identificare i propri giudizi ricorrenti è un passo fondamentale per poter prendere una distanza critica da essi, imparare a gestirli e per migliorare, così facendo, la gestione del problema primario. Si può provare a farlo attraverso una pratica di Mindfulness.
Siedi comodamente su una sedia o su un cuscino da meditazione e osserva il tuo respiro per almeno 10 minuti. Ogni volta che arriva un pensiero o un’immagine in mente, riporta l’attenzione al respiro; non importa quante volte ti distrarrai, l’importante è ricominciare sempre dal respiro. Ora porta alla mente una frase che spesso ti ripeti quando ti stai giudicando. Osserva l’effetto che fa, a livello del corpo e della mente, portare alla coscienza questo giudizio. Fai spazio e continua a osservare. Ora prova a generare un “antidoto” al tuo giudizio. Elabora una frase colma di pensieri salutari, anche se all’inizio ti sembra strano o forzato. Prova a dirti qualcosa che per te sia credibile e che rifletta il più possibile la realtà dei fatti. Se, per esempio, sei abituato a dirti “sono un incapace”, forse dirti “sono capace” potrebbe non funzionare. Elabora un antidoto più ampio e rispettoso di te, come ad esempio: “Mi sto impegnando al massimo”, “Metto tutto me stesso in quello che faccio”, “Vivrò la mia vita con fiducia”.
Osserva cosa succede nel tuo corpo e nella tua mente quando interrompi l’automatismo del giudizio e inizia a rispettarti e a prenderti cura di te.
Per approfondimenti:
Il cuore saggio di Jack Kornfield