Io non credo nella psicoterapia
di Elena Bilotta
“Io non credo nella psicoterapia“. Un esordio del genere non promette molto di buono, ma da terapeuta che lavora con i disturbi personalità sono abbastanza abituata a sentirmelo dire e non mi indispone, anzi mi incuriosisce. Non deve essere facile per la persona che ho di fronte sentire di avere bisogno di qualcosa in cui non crede. La sua sofferenza deve essere profonda e radicata, come la sua solitudine, e deve averne provate tante, forse tutte. “Le ho provate tutte“. Ecco, come sospettavo.
La persona seduta davanti a me è un uomo di mezza età, sovrappeso, non particolarmente curato nell’aspetto. Mi racconta che i suoi familiari non sanno che è venuto in terapia, perché nessuno capirebbe. In famiglia se si parla di terapia si pensa solo a Sergio Castellitto (per via della serie italiana “In treatment”) e in generale tutti dicono che i soldi spesi per un terapeuta sono buttati. Per loro è molto più efficace il lettino dell’estetista che quello dell’analista. “Beh qui non abbiamo un lettino, quindi forse abbiamo un problema in meno“, scherzo io, sorridendo. Ma lui mi guarda un po’ schifato dal mio umorismo spicciolo. Ha ragione, avrei potuto proprio risparmiarmela, soprattutto perché ancora non so nulla di lui e del suo funzionamento, e l’umorismo, almeno nei primi incontri, va sempre dosato e calibrato, perché potrebbe essere sempre interpretato come sarcasmo escludente e umiliante, anziché come ironia benevola e inclusiva, che era poi la mia intenzione.
L’inizio non è dei migliori, e io comincio a sentirmi un po’ a disagio, esaminata e testata, scrutata come se dall’altra parte lui volesse capire quale sarebbe la qualità che io dovrei avere e che lui non ha. La pesantezza del clima che avverto mi suggerisce che potrebbe trattarsi di un disturbo di personalità. Difficile sentirsi così quando si ha davanti un paziente “solo” ansioso od ossessivo. Certo, potrei sbagliarmi e quindi continuo ad ascoltare senza giudizio o diagnosi in testa.
A malincuore mi racconta il suo problema: “Non dormo da due anni“. “Mi sveglio 5, 6, 7 volte a notte e la mia mente viene avvolta da una nube di pensieri che non riesco a gestire, allora sento un peso al petto e penso che mi stia venendo un attacco di cuore, così mi alzo, vado sul balcone, fumo una sigaretta e magari bevo un grappino e poi torno a letto”.
La mia prima domanda è quella più semplice e intuitiva, forse da lui letta come banale, ma non devo colpirlo con effetti speciali, come mi spingerebbe a fare la sensazione del suo sguardo addosso: “è successo qualcosa due anni fa, in concomitanza con questo cambiamento nella qualità del suo sonno?“. “Beh, è venuta a vivere a casa mia la mia compagna. Ma mica è per questo, che c’entra!” Mi guarda sempre più schifato e non capisco se a questo punto l’espressione di disgusto che ha quasi costantemente in viso non sia invece spavento. Paura che qualcun altro capisca qualcosa che lui non ha capito, che qualcun altro prenda il controllo, facendolo così perdere a lui. Eh no, sicuramente per la persona che ho davanti il controllo è importante, e non devo in nessun modo fargli pensare che io voglia toglierglielo.
“No certo, non intendevo questo, ho solo fatto questa domanda per capire se associa questo cambiamento interno a un cambiamento esterno“. “No, non lo associo a niente“. “Ok“.
“Le capita di rimuginare anche di giorno o solo durante la notte?“. “Anche di giorno purtroppo, per quello sono qui. Provo a distrarmi ma non funziona niente, a allora mi capita che divento molto nervoso, rispondo male a tutti, pure sul lavoro e pure con la mia fidanzata“. “Cos’è che la fa arrabbiare di solito?” continuo con le domande ovvie. “Tutto e tutti, mi urtano i nervi. E poi mi danno fastidio tutte quelle coppie felici coi bambini, tutti innamorati e contenti e io mi dico perché io no?”. Come spesso capita nei pazienti complessi, le informazioni arrivano un po’ a raffica e confuse su diversi piani, e lo sforzo da fare è quello di provare a mettere in ordine i contenuti e provare a metterli in un ordine gerarchico che abbia un senso e che venga condiviso dalla persona che si ha di fronte. Non credo che la persona che ho davanti però condividerebbe qualcosa con me.
“Mi scusi, non ho ben capito, quindi ciò cos’è che esattamente la infastidisce?“. “Eh lo so che tanto lei andava a parare lì: sì, allora io vorrei un figlio ma la mia compagna non vuole. All’inizio neanche io volevo, ma adesso ho cambiato idea, forse perché sto diventando vecchio, inizio ad avere i capelli grigi e paura della morte“. Il tono cambia, non mi guarda in faccia. Capisco che si sta aprendo più di quanto avesse preventivato, ma questo non è un bel segnale per un paziente così; una volta uscito dalla seduta potrebbe pentirsene e starci molto male. Bisogna andarci piano perché condividere troppo, per alcuni pazienti, è insostenibile. “Immagino che questo le provochi tanto dolore“, dico, nella totale semplicità letta forse come banalità. “Sì, infatti. E ora che lo so che ci faccio?“. Ecco, appunto, ho detto una frase sbagliata per chi ho davanti. La persona che mi trovo di fronte tollera difficilmente qualsiasi tipo di comprensione o simil-compassione; le vive come umilianti. Già il fatto di essersi “ridotto” a parlare con uno specialista è per lui sconfortante e fonte di rabbia e frustrazione, come spesso accade in alcuni funzionamenti narcisisti. Sarà dura, penso, e forse sarà solamente una esperienza di profonda impotenza.
Ho però già da questi pochi scambi delle indicazioni che sono estremamente importanti per gestire il colloquio e il mio modo di pormi col paziente. Devo restare sullo sfondo e non devo avvicinarmi troppo. Non devo fare espressioni del volto che comunichino pena o tenerezza nei confronti del suo dolore, ma devo mantenermi il più possibile neutrale e con una espressione del viso che non lasci trapelare alcuna emozione specifica. Non devo fare troppe domande e non devo irrigidirmi quando ho la sensazione che io debba, con le poche informazioni che ho, dare una soluzione immediata al suo problema. Non devo cadere nella trappola dell’urgenza, dentro la quale lui è caduto già da tanto tempo.
Forse questo potrà essere un buon inizio.
Continua…
NB: più che riferirsi a un caso specifico, il racconto narra un tipo di funzionamento.